Anoressia e bulimia, drammi al femminile
Quelle ragazze in lotta con se stesse
Intervista ad una ragazza che non riesce a venirne fuori
Intervista ad una ragazza che non riesce a venirne fuori
Serena è in lotta con se stessa da oltre vent’anni. Serena è un caso estremo, potrebbe essere tranquillamente lei la testimonial dell’ultima campagna pubblicitaria di Oliviero Toscani. Serena è un nome di fantasia, ma il suo dramma è tutto vero. Pesa 25 chili e soffre di anoressia, a periodi divenuta bulimia. Fa parte di quella categoria di ragazze, il 20% dei casi, che la medicina non riesce a curare. Perché la malattia si cronicizza. Serena è la ragazza che potrebbero diventare tutte quelle che hanno questo problema e che non si fanno aiutare. Anche sei lei per molti anni ha seguito una terapia seria e ancora continua ad essere controllata. È divisa in due, ma non è schizofrenica. Serena contro Serena. Ecco quel che capita nella sua testa. La Serena che vuole essere magra e vuole distruggersi e la Serena che razionalmente capisce che è magra, «ma è più forte di me». «Vorrei ma non posso», è la frase che ripete all’infinito mentre racconta di sé. Sa tutto, è consapevole. In certi momenti, quando usa il «noi», sembra quasi una sindacalista. Ora ha 37 anni, ma tutto è iniziato che ne aveva 14. 25 chili pesava allora e 25 chili pesa adesso. Ha fatto di tutto per poter mangiare sempre di più, trovare i soldi per la spesa, abbuffarsi e poi liberarsi di tutto. Con le classiche due dita in gola, i lassativi o le purghe della nonna, «mentre a lei riempivo il bicchiere d’acqua». Nei momenti peggiori è arrivata a sedersi per terra e a mangiare dalla ciotola del suo cane. Serena, che in piedi sembra un fuscello, uno scheletro, è un miracolo sia ancora viva.
Serena, cosa la fa star male davanti al cibo?
«Per me mangiare è una vergogna. Amo mangiare, ma dopo mi sento sporca. Come se avessi fatto qualcosa che non avrei dovuto. È tanto bello mentre mangi, ma è il doppio più brutto dopo che lo hai fatto».
Ora pesa 25 chili. È magra o si sente non magra?
«So che sono magrissima, ma è un ragionamento razionale. Se entra in funzione l’altra me, quella ancora malata e che vorrei tentare di distruggere, ho la sensazione del gonfiore. Neanche il 25 sulla bilancia mi convince che sono magra. Eppure mia nipote che ha 7 anni pesa 5 chili più di me».
Quando ha capito che aveva bisogno di aiuto?
«Stavo arrivando alla morte e ho chiamato lo psicologo. È stato un tentativo di combattere la malattia, me stessa, l’altra me. Mi sento divisa in due. Ho problemi con la mia immagine riflessa nello specchio. I lassativi sono imposti dall’altra me. Se non li prendo mi sento colpevole».
In principio aveva qualche idea per sconfiggere l’altra lei?
«Il primo passo è stato andare dallo psicologo, che equivale ad una richiesta d’aiuto. Volevo uscire da questo inferno che odi e ami. Perché noi ci adagiamo su questa malattia. Ci piace soffrire, far vedere agli altri di soffrire. Un altro tentativo è accettare le cure, lasciar perdere la tua personalità ed affidarsi agli altri. Da tranquilla, capisco che mi sono ammalata. Ma poi lo dimentico».
Perché si è ammalata?
«La paura di amare. Perché sapevo che amando qualcuno, si poteva soffrire. Rifiutavo e rifiuto l’amore perché ho paura di soffrire. Perché le persone muoiono, ti possono deludere e io non volevo. Allora ho cercato un mondo mio, dove non esisteva la sofferenza. Perché io all’inizio non soffrivo. Racconto un episodio per chiarire. Un giorno ero sola che stavo mangiando a più non posso e mi arriva una telefonata. Papà si era sentito male. Sono rimasta fredda, non vedevo l’ora di metter giù la cornetta per continuare a mangiare. Dopo mi sono sentita in colpa, mi sono sfregiata. Cosa stai facendo? Tuo padre è grave e tu pensi a mangiare?».
Quando ha iniziato a farsi aiutare, rifiutava le flebo. Perché?
«In tutto questo c’entra l’amore. Non avrei mai creduto di poter associare cibo e amore. Ora so che l’amore esiste veramente, che c’è gente che mi ama, che si è sacrificata e non perché sto male, ma proprio perché mi vuole bene. Credevo che una volta guarita sarei rimasta sola con me stessa, la persona che odio moltissimo. Ancora non posso dire di amare qualcuno. Forse un giorno. Il primo passo è farmi aiutare, il secondo sarà riuscire ad amare. Ora sono egoista, penso solo a me. Non sono in grado di amare, ma penso che l’amore esista. Ne sono certa».
Grazie alla terapia è arrivata a pesare 30 chili. Ricorda con piacere quel periodo?
«Se do retta all’altra parte di me, quella che mi vuole morta, penso che nell’arrivare a 23 chili ci sia tutto di guadagnato. La parte ancora viva, e Dio lo sa se sono ancora viva, invece… Però la verità è che tornare a pesare 30 chili mi terrorizza. So che quei 5 chili mi servirebbero per stare in piedi, per uscire, andare a cena con mia sorella. Ma lo vedo solo come un ingrassamento. Anche recuperassi solo un grammo. Penso che se guarissi, la gente mi troverebbe ingrassata. E questo è più forte di guarire».
Qual è il complimento che apprezzerebbe di più?
«Che la gente mi trovi magra».
E la frase che più la fa soffrire?
«Quando mi dicono: “ti vedo meglio”. È un dolore enorme. Questa è una malattia strana, ti mette ansia».
Perché ha paura di guarire?
«Perché non accetto ancora me stessa, non credo di avere le capacità, altre capacità. E poi stando male li costringo ad amarmi».
C’è stata una volta che l’ha combinata grossa davvero?
«Il periodo della bulimia è stato il periodo peggiore. Mi vergognavo con i miei familiari. Non dormivo, pensavo a quello che avrei dovuto comprare il giorno dopo per poter mangiare subito. E facevo di tutto per trovare i soldi e comprare tutta quella roba. Riempivo la borsa. Vivevo per mangiare. Mangiare mi dava la forza di andare avanti. Perché a volte avevo voglia di buttarmi di sotto. Mangiavo anche una vaschetta da un chilo di gelato, il prosciutto. Ma non sentivo più il loro sapore. Mangiavo e basta. Mi ricordo una volta che preparai il cibo per il cane ma poi lo mangiai io. Mi sedetti per terra e lo presi con le mani direttamente dalla ciotola. Desideravo mangiare a tavola con la mia famiglia, ma non potevo».
Le dà fastidio l’accostamento della sua malattia alla tossicodipendenza?
«Era così. Nel modo in cui cercavo i soldi per far la spesa. Avrei fatto qualunque cosa. Mettevo l’acqua nel bicchiere di nonna e la sua purga la prendevo io. Mi muovevo come un cavallo con i paraocchi».
E questo rituale di andare in bagno 15 minuti dopo essersi abbuffata?
«Provavo a rimettere, solo che non ci riuscivo. E poi stavo ore davanti allo specchio e mi guardavo. Per vedere se con quel che avevo mangiato ero ingrassata. Ero convinta che ogni volta che mangiavo, che ingerivo un tot di gelato, sarei diventata come una botte. Ma se si tratta della vera me, so che deformavo la realtà».
Spesso si è rappresentata come un ippopotamo…
«Non per la mia immagine riflessa nello specchio, ma per quella sensazione di gonfiore. Ti senti così e finisce che ti convinci che sei così. Allora ho provato a fare delle foto per vedere la realtà. Non mi ero mai vista così. Mi sono impaurita. Ma quelle foto le ho strappate subito per evitare l’evidenza».
«Per me mangiare è una vergogna. Amo mangiare, ma dopo mi sento sporca. Come se avessi fatto qualcosa che non avrei dovuto. È tanto bello mentre mangi, ma è il doppio più brutto dopo che lo hai fatto».
Ora pesa 25 chili. È magra o si sente non magra?
«So che sono magrissima, ma è un ragionamento razionale. Se entra in funzione l’altra me, quella ancora malata e che vorrei tentare di distruggere, ho la sensazione del gonfiore. Neanche il 25 sulla bilancia mi convince che sono magra. Eppure mia nipote che ha 7 anni pesa 5 chili più di me».
Quando ha capito che aveva bisogno di aiuto?
«Stavo arrivando alla morte e ho chiamato lo psicologo. È stato un tentativo di combattere la malattia, me stessa, l’altra me. Mi sento divisa in due. Ho problemi con la mia immagine riflessa nello specchio. I lassativi sono imposti dall’altra me. Se non li prendo mi sento colpevole».
In principio aveva qualche idea per sconfiggere l’altra lei?
«Il primo passo è stato andare dallo psicologo, che equivale ad una richiesta d’aiuto. Volevo uscire da questo inferno che odi e ami. Perché noi ci adagiamo su questa malattia. Ci piace soffrire, far vedere agli altri di soffrire. Un altro tentativo è accettare le cure, lasciar perdere la tua personalità ed affidarsi agli altri. Da tranquilla, capisco che mi sono ammalata. Ma poi lo dimentico».
Perché si è ammalata?
«La paura di amare. Perché sapevo che amando qualcuno, si poteva soffrire. Rifiutavo e rifiuto l’amore perché ho paura di soffrire. Perché le persone muoiono, ti possono deludere e io non volevo. Allora ho cercato un mondo mio, dove non esisteva la sofferenza. Perché io all’inizio non soffrivo. Racconto un episodio per chiarire. Un giorno ero sola che stavo mangiando a più non posso e mi arriva una telefonata. Papà si era sentito male. Sono rimasta fredda, non vedevo l’ora di metter giù la cornetta per continuare a mangiare. Dopo mi sono sentita in colpa, mi sono sfregiata. Cosa stai facendo? Tuo padre è grave e tu pensi a mangiare?».
Quando ha iniziato a farsi aiutare, rifiutava le flebo. Perché?
«In tutto questo c’entra l’amore. Non avrei mai creduto di poter associare cibo e amore. Ora so che l’amore esiste veramente, che c’è gente che mi ama, che si è sacrificata e non perché sto male, ma proprio perché mi vuole bene. Credevo che una volta guarita sarei rimasta sola con me stessa, la persona che odio moltissimo. Ancora non posso dire di amare qualcuno. Forse un giorno. Il primo passo è farmi aiutare, il secondo sarà riuscire ad amare. Ora sono egoista, penso solo a me. Non sono in grado di amare, ma penso che l’amore esista. Ne sono certa».
Grazie alla terapia è arrivata a pesare 30 chili. Ricorda con piacere quel periodo?
«Se do retta all’altra parte di me, quella che mi vuole morta, penso che nell’arrivare a 23 chili ci sia tutto di guadagnato. La parte ancora viva, e Dio lo sa se sono ancora viva, invece… Però la verità è che tornare a pesare 30 chili mi terrorizza. So che quei 5 chili mi servirebbero per stare in piedi, per uscire, andare a cena con mia sorella. Ma lo vedo solo come un ingrassamento. Anche recuperassi solo un grammo. Penso che se guarissi, la gente mi troverebbe ingrassata. E questo è più forte di guarire».
Qual è il complimento che apprezzerebbe di più?
«Che la gente mi trovi magra».
E la frase che più la fa soffrire?
«Quando mi dicono: “ti vedo meglio”. È un dolore enorme. Questa è una malattia strana, ti mette ansia».
Perché ha paura di guarire?
«Perché non accetto ancora me stessa, non credo di avere le capacità, altre capacità. E poi stando male li costringo ad amarmi».
C’è stata una volta che l’ha combinata grossa davvero?
«Il periodo della bulimia è stato il periodo peggiore. Mi vergognavo con i miei familiari. Non dormivo, pensavo a quello che avrei dovuto comprare il giorno dopo per poter mangiare subito. E facevo di tutto per trovare i soldi e comprare tutta quella roba. Riempivo la borsa. Vivevo per mangiare. Mangiare mi dava la forza di andare avanti. Perché a volte avevo voglia di buttarmi di sotto. Mangiavo anche una vaschetta da un chilo di gelato, il prosciutto. Ma non sentivo più il loro sapore. Mangiavo e basta. Mi ricordo una volta che preparai il cibo per il cane ma poi lo mangiai io. Mi sedetti per terra e lo presi con le mani direttamente dalla ciotola. Desideravo mangiare a tavola con la mia famiglia, ma non potevo».
Le dà fastidio l’accostamento della sua malattia alla tossicodipendenza?
«Era così. Nel modo in cui cercavo i soldi per far la spesa. Avrei fatto qualunque cosa. Mettevo l’acqua nel bicchiere di nonna e la sua purga la prendevo io. Mi muovevo come un cavallo con i paraocchi».
E questo rituale di andare in bagno 15 minuti dopo essersi abbuffata?
«Provavo a rimettere, solo che non ci riuscivo. E poi stavo ore davanti allo specchio e mi guardavo. Per vedere se con quel che avevo mangiato ero ingrassata. Ero convinta che ogni volta che mangiavo, che ingerivo un tot di gelato, sarei diventata come una botte. Ma se si tratta della vera me, so che deformavo la realtà».
Spesso si è rappresentata come un ippopotamo…
«Non per la mia immagine riflessa nello specchio, ma per quella sensazione di gonfiore. Ti senti così e finisce che ti convinci che sei così. Allora ho provato a fare delle foto per vedere la realtà. Non mi ero mai vista così. Mi sono impaurita. Ma quelle foto le ho strappate subito per evitare l’evidenza».
(Alessandra Testa)
La madre
«Basta dire che è da sciocche,
può capitare a chiunque»
può capitare a chiunque»
L’esperienza di mamma Isa dimostra che può capitare a chiunque. Che succede a caso, «che non è vero niente che è una malattia sciocca, che le ragazze si ispirano ai modelli che vedono in televisione e che vorrebbero essere come le fotomodelle. Basta con questa storia». L'anoressia è una malattia grave, che può diventare cronica e che può portare anche alla morte. A sua figlia è capitata piano piano all’età di sedici anni. Forse perché troppo sensibile. Una famiglia unita, nessun problema di genitori separati o lutti. Nessuna complicazione o contrasti. Ottimi voti a scuola e un gruppo di amici affiatati. Nessuna caramella prima dei cinque anni, «ci tenevo molto ai denti dei miei figli», e nessuna merendina. Solo torte fatte in casa, un’alimentazione sana, senza fritture. Semplicemente una bella famiglia a cui ad un certo punto è caduta una tegola in testa. «Anche se mia figlia all’inizio raccontava che a casa nessuno se ne era accorto, io avevo capito - racconta mamma Isa, che oggi fa parte del gruppo “I genitori accolgono i genitori” dell’associazione famiglie neurologiche pediatriche Fanep per i disturbi del comportamento alimentare di Bologna - La vedevo dimagrire, mangiare meno. Ma non volevo accorgermene, rendermene conto. Avevo paura e negavo l’evidenza». Dapprima ha pensato ai problemi normali dell’adolescenza, al desiderio di dimagrire che hanno tutte le ragazze di quella età. Poi le cose sono precipitate. «Ha cominciato ad essere iperattiva, saltava, correva per consumare tutto quel che ingeriva - racconta - Controllava il cibo, quando, cosa e come cucinavo». Poi è arrivato l’isolamento. Il chiudersi in se stessa, il non voler più veder nessuno, «forse perché aveva vissuto una piccola esclusione dal gruppo che frequentava», il cambiare sguardo. Il cercare scuse se qualcuno la invitava, il diventare «da solare, sempre con la tristezza sul volto». «Me la ricordo in cucina con la faccia contro il muro che abbracciava il termosifone, perché a non mangiare si ha più freddo». Quando è arrivata a 37 chili qualcuno di famiglia molto vicino le ha fatto capire che doveva muoversi, fare qualcosa. «Io già lo sapevo che dovevo fare presto e l’ho fatto, ho chiesto aiuto e sono stata fortunata, perché adesso mia figlia sta bene». Ed è ancora più bella di prima. Mamma Isa non dice è guarita, perché dai disturbi alimentari è difficile separarsi. Il peggio però è passato e la vita è tornata normale. Ma sono stati anni duri, drammatici. «Le gridavo che era malata, quando lei non voleva sentirmi, non voleva farsi aiutare - prosegue - Poi fortunatamente è nato un grande amore fra lei e la sua psicologa». Così «ho potuto dirle che si doveva fidare di me, che non l’avrei mai tradita. Che le avrei fatto mangiare solo quello che diceva la dietista. Niente di più, niente di meno, ma che dei condimenti avrebbe dovuto occuparsene da sola». E lei si è fidata. Mamma Isa si alzava la notte per controllare che la sua bambina, «che voleva restare bambina», respirasse. E ha iniziato a dettare regole a tutta la famiglia, nonni compresi. Mai dirle che era ingrassata o dimagrita, mai guardare nel suo piatto, mai dirle «oh santo cielo quanto mangi poco». Nel frattempo, continuando mamma, papà, «che è stato bravissimo, le è sempre stato vicino», e il resto della famiglia a cibarsi normalmente. Mamma Isa si è fatta mille domande. Su cosa poteva aver sbagliato, su quali potevano essere state le cause. E si è data poche risposte. «Perché intanto era successo e bisognava agire». Quando parla di quel che ha vissuto usa la parola «catastrofe», come quella volta che al supermercato alla figlia venne una crisi di panico «in mezzo a tutto quel cibo». Ma ringrazia mille volte l'Ospedale Sant’Orsola, la Fanep e mille volte il cielo per come è andata. Guardando però in faccia la realtà. «Ho visto ragazze morire - confessa - famiglie vergognarsi di farsi aiutare». E medici di base non preparati ad affrontare la patologia, strutture non sufficienti per curarla. Per chi ha superato i ventiquattro anni a Bologna non esiste un centro per il ricovero. Solo cinque letti al Gozzadini, dieci per il day hospital e niente più. È nato anche per questo il gruppo “I genitori incontrano i genitori”, per condividere con altre famiglie le difficoltà dei figli, «aiutarsi a vicenda, capire». E per mandare avanti una piccola grande lotta, una richiesta arrivata anche al ministero della salute che alla sanità dell’Emilia-Romagna ha dato voto 10. «Il mio sogno, il nostro sogno - conclude - è quello che nasca in città, ovunque, un reparto ad hoc per questa malattia».
(Alessandra Testa)