Da molti anni frequento donne immigrate in
Italia, sia nei programmi di alfabetizzazione o insegnamento della lingua
italiana, sia in situazioni informali di feste e corsi di cucina o cucito, o
nelle piazze, in occasione di mobilitazioni o eventi antirazzisti. Nel corso
del tempo ho viaggiato in paesi soprattutto africani, in quelle nazioni tanto
lontane dall’Italia per stili di vita, credenze, tradizioni e storia. Le ho ascoltate
parlare, le donne, raccontare e ridere, sfogarsi e costruire pensieri.
Per anni e anni ho seguito alcune vicende
legate alle violenze da molte di loro subite; ho pianto delle loro morti, delle
prevaricazioni esperite, del loro soffocamento in famiglia e nella comunità.
Ho visto associazioni accudirle, questure
vessarle, ospedali respingerle. Ho sentito figli maltrattarle, mariti adorarle,
amiche sostenerle. Le ho osservate cucinare, lamentarsi, sbagliare, esagerare,
partorire, maledire, mediare, ripartire.
Dopo più di 20 anni di vita con loro,
nelle loro case, e nella mia, non distinguo, nel mio cuore, la loro
provenienza: se non quando leggo di “loro” nei giornali, o sento parlare di
“loro” nelle conferenze e nei convegni; se non quando “loro”. Vengono a
cercarle, a cercare “loro”, giovanissime e ben intenzionate laureande, per
intervistarle e porre “loro” domande incomprensibili su temi di ordinaria
monotonia: ginecologia, molestie, violenza, scolarità.
Poi: le distinguo quando si vota, perché
“loro” non votano; quando c’è un concorso pubblico, perché i “loro” titoli di
studio quasi mai vengon riconosciuti in Italia.
E mentre quando parliamo di storia, e la
“loro” storia non è la mia, o di fiabe, o di musica, che non sono le stesse,
con divertito interesse ci confrontiamo e ci raccontiamo, quando invece la
differenza rende le donne immigrate deboli, irriconosciute, non-cittadine,
carenti, non c’è progetto o incontro a tema o sussidio che addolcisca la
pillola: le devo vedere con quegli occhi, le devo considerare in quel modo. Un
branco di deboli questuanti incapaci, schiave di tradizioni incomprensibili e
arretrate e soggette alla volontà altrui. Poverine, le donne immigrate. Non c’è
niente da fare, sono diverse.
Così, le abbiamo rese. Da commiserare, e
aiutare in ogni settore, perché non son capaci che di poco o nulla.
Ma io non ci sto più.
A questo punto, credo davvero che la mia
amicizia e supporto per “loro” sia di trasmettere un poco di empowerment,
di conoscenza dei mezzi possibili, di amore per la tenacia, di sicurezza e
autostima, oltre che di valutazioni "diverse" dei comportamenti e
delle catene imposte.
E’ il momento per me di dirlo: di dire
che, per il bene loro – e mio - accoglierle come amiche non basta. Il mio Paese
non mi consente la naturalezza. E allora devo darmi da fare per aprire loro
possibilità e fare loro acquisire competenze diverse anche sui comportamenti
possibili, che rompano con le credenze imposte. Occorre praticare un’altra
opzione, agire una mentalità cambiata. Avere davanti obiettivi d'indipendenza,
visioni di libertà vissuta.
L'atto migratorio, anche per me, quando
"migro" nelle famiglie altre, ci apre la testa a rivelazioni e novità
creative e divergenti rispetto ai nostri vissuti. Se un augurio posso fare alle
donne, è quello di sapere che cosa buona e giusta è usare i mezzi legali ma
anche inconsueti, forse, o comunque non convenzionali, per riavere indietro la
loro capacità decisionale.
Per me, lo ripeto.
Credo debba anche passare il messaggio che
possono comprendere; se una donna non capisce un termine, una ricetta, un
referto, DEVE chiedere, approfondire, comprendere PERFETTAMENTE.
La “nostra” italica disponibilità c'è,
almeno così dicono le centinaia di associazioni e gruppi femminili. Ma ora
dovrebbe essere chiaro che non è funzionale rimanere dipendenti da un
assistentato ad libitum di italiani, che, se pur ci sono, sono con loro
anche per farle crescere, come donne e cittadine, come cresciamo tutti e
sempre, come occorre fare nella vita. Per tutti.
Chiediamo aiuto, è sacrosanto: ma solo
fino a quando sia strumentale all’autonomia, non alla dipendenza ad oltranza.
Quando l'abbiamo, l’aiuto, valorizziamolo. Se no ci si rivolterà contro,
diventerà un’abitudine che fa comodo ai politicanti e ai loro traffici.
Le donne ora dovrebbero avere l'obiettivo
di muoversi sempre meglio e di comprendere sempre di più. Con la motivazione di
se stesse e dell’amore per il mondo, e non solo dei loro figli, altro
stereotipo comodo al sistema che le confina tra le mura domestiche.
Donne,
amiche, uscite dagli spazi dei consultori e dei corsi di italiano: usate i
vostri occhi splendidi e nuovi per creare splendide e nuove cose.
Alessandra Lazzari
Questa è la storia
di una giovane che a febbraio è stata rinchiusa nel Centro di identificazione ed
espulsione di Bologna perché senza documenti e che, a pochi giorni dalla festa
della donna, è stata prelevata e rispedita nel suo paese, la Nigeria, perché
malata di Aids.
In barba ad ogni dichiarazione dei diritti umani, e in un paese che ama
definirsi civile, succede ancora che chi ha bisogno di aiuto venga abbandonato
e rimpatriato a dispetto di alternative alla legge Bossi-Fini come potrebbe
essere, per esempio, la concessione di un permesso di soggiorno di protezione
sociale.
A denunciare la vicenda era stata, neanche a dirlo, una donna. E cioè la deputata
bolognese del Partito democratico, Sandra Zampa, che aveva visitato la struttura
bolognese e toccato con mano le condizioni di «promiscuità», così le aveva
definite, in cui vivono gli ospiti di queste strutture. «La situazione è
allucinante – aveva informato allarmata la parlamentare –. Questa ragazza, che,
come le coetanee che sono rinchiuse al Cie, sembra molto più vecchia di quel
che è, è parecchio malconcia. Avrà a malapena trent’anni. All’Aids, che è
conclamato e di cui gli operatori si sono accorti solo dopo il suo arrivo
nell’edificio, si aggiungono altre patologie che la rendono estremamente
sofferente. Ha il terrore di essere rispedita in Nigeria dove, date le sue
precarie condizioni, sarebbe di fatto mandata a morire». Per questa giovane
donna nigeriana - che le poche testate giornalistiche che hanno riportato la
sua storia hanno ribattezzato Gloria - non c'è però stato lo stesso tam tam
mediatico che si era scatenato per il caso di Adama, la ragazza senegalese che solo
qualche mese prima era stata rinchiusa sempre nel Cie di Bologna dopo aver
denunciato gli abusi subiti dal suo compagno e trovata, anch’essa, senza
permesso di soggiorno. Mentre Adama - grazie alla mobilitazione di alcune
associazioni femminili e ad un appello corredato da più di 800 firme - aveva
ottenuto un permesso di protezione sociale ed era stata “liberata” e affidata
alla Casa delle donne per non subire violenza; di Gloria si sono perse le
tracce. Come accade, del resto, a tutti quei migranti, che il nostro paese
considera clandestini perché "sans papier", che vengono rimpatriati applicando
pedissequamente la legge dello Stato.
Eppure quando la polizia era andata a prelevare Gloria gli operatori del Cie
credevano che l’interessamento della parlamentare democratica, seppur
solitario, avesse sortito buoni frutti e che la giovane sarebbe stata presa in
carico da una struttura o da un'associazione umanitaria in grado di aiutarla.
Ma così non è stato. Al contrario, Gloria è stata accompagnata all'aeroporto, imbarcata per Fiumicino e poi
per Lagos dove è stata consegnata alle autorità locali.
Ora non è dato sapere dove sia e, soprattutto, se sta bene e se riceve le cure
di cui necessita. È accaduto, insomma, quanto la portavoce della rete Primo
Marzo e responsabile del Pd Emilia-Romagna per l’immigrazione, Cécile Kyenge
Kashetu, aveva profeticamente previsto. Ma nessuno le aveva dato ascolto. «La semplice
uscita dal Cie non basta. Per aiutare davvero queste persone - aveva sottolineato
- bisogna costruire una vera politica dell’accoglienza».
Galleria di Dante Farricella
Non c'è la folla del 2010, quando i migranti scelsero Bologna per la prima giornata "senza di noi", ma lo sguardo è decisamente sul futuro. Anche se non c'è il giallo (simbolo del cambiamento) con cui la rete Primo Marzo aveva invitato i partecipanti a scendere in piazza, mancano i lavoratori e l'organizzazione è risultata piuttosto "anarchica" rispetto alle aspettattive, sono i ragazzi delle scuole superiori a far sperare nel fatto che non ci sono legge Bossi-Fini e respingimenti che possano cambiare la realtà: la società meticcia che i più giovani sognano è già iniziata.
Erano 250, massimo 300 gli studenti medi che in mattinata hanno dato il via al terzo sciopero degli stranieri.
Frequentano gli istituti cittadini. Le Aldini, il Fioravanti, il Serpieri, le Rosa Luxemburg, il liceo Sabin e il
polo artistico. Bolognesi, rumeni,
marocchini, senegalesi, pachistani, sfilano fianco a fianco e ballano al ritmo della musica hip hop. Sotto l’occhio attento delle forze
dell’ordine, portano in corteo il loro slogan scritto con lettere colorate: “Contro ogni
razzismo, per una società meticcia”. Come lo sono già le loro classi, formate
al 50% da italiani e al 50% da stranieri «perché così ci considerano, anche se
siamo nati in Italia», come fotografa
alla perfezione Eduard, origini romene e appena 14 anni.
Poi c’è Zakaria Zrari, che dà la carica ai compagni dal
megafono. Zakaria ha 17 anni ed è venuto sotto le Due Torri dall’Alsazia
Lorena, in Francia, solo per manifestare. «Sono arrivato a Bologna quando avevo
8 mesi e ci ho vissuto fino all’anno scorso. Dopo 15 anni, mio padre ha
ottenuto la cittadinanza e con lui anche io – spiega – Ora sono in Francia
perché papà ha perso il lavoro e ha scelto di trasferirsi. Ma mi sento italiano
ed è qui che ho tutti i miei amici, che almeno oggi ho voluto rincontrare.
Appena compio 18 anni girerò tutto il mondo, perché del mondo intero mi sento
figlio».
Non ne sono consapevoli, ma sono già più avanti del paese in cui abitano, delle
leggi, della Bossi-Fini contro cui urlano a squarciagola che «allora siamo tutti clandestini». Bianchi, neri e gialli.
La rabbia, il doversi sempre sentire di troppo, l'energia.
La loro storia la
raccontano con parole semplici. Con un italiano sicuro, che va subito al punto.
In piazza de l’Unità, da dove prende le mosse una giornata che si concluderà solo in serata in piazza Maggiore, chiedono «cittadinanza subito, perché se andiamo nella stessa scuola e
parliamo la stessa lingua siamo tutti uguali».
Qui in Italia i figli dei migranti li chiamano di seconda generazione.
Una definizione che non gradiscono.
Mohamed Fnino, per tutti “Mummo”, ha 16 anni ed è iscritto all’istituto
professionale Aldini: «I miei genitori sono del Marocco, ma
io sono nato qua, mi sento italiano – dice, con un accento quasi emiliano –
Eppure la legge Bossi-Fini mi tratta da ospite. Se non avrò 18 anni di
residenza continua in Italia non mi daranno la cittadinanza e mi espelleranno. Se
invece sarò più fortunato e potrò restare e continuare gli studi – prosegue –
dovrò fare un permesso di soggiorno per motivi di studio e garantire un tot ore
di lavoro, che però non mi consentiranno
nemmeno di pagare i libri dell’Università». “Mummo” fa anche parte di un gruppo
musicale – le “Anime confuse” – e con la sua musica hip hop in serata si è esibito
in piazza Maggiore. Nome del disco che la band si è autoprodotta: “On the move,
generazione in movimento”.
«Vogliamo la cittadinanza per i nostri figli senza condizioni
– gli fa eco Sené Bazir, senegalese da 20 anni a Bologna e voce storica del
Coordinamento migranti di Bologna – Devono poter vivere a pieno la loro vita.
Li chiamano di seconda generazione. Ma non sono secondi a nessuno». Proprio come gli altri studenti bolognesi che sfilano
insieme a loro e con cui in aula siedono vicini, gomito a gomito. «Avere la cittadinanza secondo lo Ius soli dovrebbe significare che sei cittadino se sei nato qui – fa
notare – non solo se rispondi a certi requisiti come si propone da più parti.
Uno fra tutti: che i tuoi genitori siano regolari». Bazir fa l’operaio, ma i suoi
contratti sono tutti precari. «Questo è il nostro giorno della
negazione – spiega – Siamo qui per chiedere il ritiro di ogni tassa sul
permesso di soggiorno. Troviamo incivile, ingiusto e indegno dover pagare 200
euro, come stabilito dal governo Berlusconi, per ogni rinnovo». «E troviamo vergognoso che l’Italia
sia l’unico paese in cui sei straniero anche se nasci qui», chiosa poi.
Viene dal Senegal anche Babacar Ndiaye. «Ho 48 anni e sono qui da 22 –
racconta – Ho fatto mille lavori, alla Coop, in fabbrica, ma ora sono
disoccupato. Ho un figlio di 14 anni che vive con me, mentre mia moglie è
rimasta in Africa. Il nostro – ci tiene a rimarcare – non è uno sciopero
etnico. Paghiamo la crisi proprio come gli altri lavoratori e siamo qui tutti
insieme, bianchi, neri e gialli, per chiedere la stessa cosa: dire no allo
sfruttamento e alla precarietà perché considerare i problemi dei migranti come
una questione separata rende solamente tutti più deboli e raddoppia il razzismo
istituzionale, che non è quello della Lega Nord, ma quello della burocrazia».
In marcia con gli studenti c'erano alcune giovani donne, anche se quelle che
svolgono i lavori di cura (le cosiddette badanti) non ci saranno nemmeno nel
pomeriggio: sono rinchiuse in casa dove, chi c’è, spera abbiano raccolto almeno
l’invito ad indossare un indumento giallo in segno di adesione. Non c’è nemmeno
Cécile Kyenge, la fondatrice del primo marzo degli stranieri e oggi referente
nazionale della rete. Quest’anno Kyenge ha preferito essere a Vittoria
in Sicilia. L'abbiamo, però, raggiunta al telefono. «La Sicilia è la porta d’Europa: è qui, soprattutto a
Lampedusa, che arrivano i tanti che scappano dalla Tunisia in cerca di una vita
migliore». Kyenge ha 48 anni e vive a Castelfranco Emilia, in provincia di
Modena, dal 1983. «Originaria della Repubblica del Congo
sono venuta qui da sola perché l’Italia era l’unico posto dove mi era permesso
di andare all’Università. Se fossi dovuta andare in Giappone, sarei andata lì
per laurearmi». Ora è un medico ed esercita a Modena. «Ho lavorato giorno e notte per realizzare il mio sogno e oggi
che faccio il medico per vivere ne ho un altro: dare ai migranti che hanno
scelto questo paese il benessere che cercano».
Tra le donne dell’associazione
Migranda, nata l’anno scorso proprio in occasione del primo marzo e che aveva
portato in corteo delle sagome di legno per rappresentare «le tante badanti chiuse in casa a lavorare», anche Milena Trajkouska. Viene dalla Macedonia e frequenta la
specialistica alla facoltà di Giurisprudenza. Anche grazie alla sua mobilitazione,
Adama Kebe, che era stata rinchiusa nel Cie di Bologna perché senza documenti dopo
aver denunciato di essere stata violentata dal suo compagno, ha potuto iniziare
una nuova vita. Milena non vuole parlare di sé, vuole dare voce a chi non
c’è: «Le donne sono discriminate due volte
e sottoposte ad un doppio ricatto: la trafila per l’ottenimento dei documenti e
le violenze che spesso subiscono in famiglia e in strada».
L’iniziativa, a cui ha aderito fra le tante sigle la Cgil che ha allestito un
piccolo presidio in piazza Re Enzo, chiede anche la chiusura dei Cie. All’appello “LasciateCIEntrare” che ha portato
i giornalisti di nuovo all’interno dei centri di identificazione ed espulsione,
il Coordinamento migranti affianca lo slogan “Lasciateci uscire”. «Per noi non ci devono essere nemmeno i finanziamenti per i
Cie – sottolinea una delle anime della Move Parade, Giorgio Grappi – i Cie
vanno chiusi. No pure al permesso di soggiorno a punti che distingue fra
immigrati qualificati (quelli che superano il test di italiano, conoscono la
Costituzione e hanno un lavoro…, ndr)
e immigrati clandestini da rinchiudere nei lager».
La giornata, prima di lasciar spazio al concerto hip hop - quello di “Mummo” - si
è chiusa con il megafono aperto a pochi passi dalla fontana del Nettuno e nella
stessa città, dove in serata si svolgeva un incontro fra il leader bolognese
della Lega Nord Manes Bernardini e l’ex ministro dell’interno Roberto Maroni. «Non siamo interessati a inseguire – commenta Sené Bazir – i
fantasmi che non sono più al governo» ma a raccontare la nostra storia.
Avventure tutte diverse, cominciate lontano, ma con una sola comune speranza a
dispetto dei clichés che promuovono l’equazione “immigrazione uguale criminalità”:
una vita migliore e, soprattutto, pari dignità in una città che hanno imparato
ad amare e che sentono, nonostante tutto, ogni giorno un po’ più “casa”.
(Alessandra Testa)