giovedì 1 marzo 2012

Il primo marzo sotto le Due Torri

Galleria di Dante Farricella
 



Non c'è la folla del 2010, quando i migranti scelsero Bologna per la prima giornata "senza di noi", ma lo sguardo è decisamente sul futuro. Anche se non c'è il giallo (simbolo del cambiamento) con cui la rete Primo Marzo aveva invitato i partecipanti a scendere in piazza, mancano i lavoratori e l'organizzazione è risultata piuttosto "anarchica" rispetto alle aspettattive, sono i ragazzi delle scuole superiori a far sperare nel fatto che non ci sono legge Bossi-Fini e respingimenti che possano cambiare la realtà: la società meticcia che i più giovani sognano è già iniziata.

Erano 250, massimo 300 gli studenti medi che in mattinata hanno dato il via al terzo sciopero degli stranieri. Frequentano gli istituti cittadini. Le Aldini, il Fioravanti, il Serpieri, le Rosa Luxemburg, il liceo Sabin e il polo artistico. Bolognesi, rumeni, marocchini, senegalesi, pachistani, sfilano fianco a fianco e ballano al ritmo della musica hip hop. Sotto l’occhio attento delle forze dell’ordine, portano in corteo il loro slogan scritto con lettere colorate: “Contro ogni razzismo, per una società meticcia”. Come lo sono già le loro classi, formate al 50% da italiani e al 50% da stranieri
«perché così ci considerano, anche se siamo nati in Italia», come fotografa alla perfezione Eduard, origini romene e appena 14 anni.

Poi c’è  Zakaria Zrari, che dà la carica ai compagni dal megafono. Zakaria ha 17 anni ed è venuto sotto le Due Torri dall’Alsazia Lorena, in Francia, solo per manifestare
. «Sono arrivato a Bologna quando avevo 8 mesi e ci ho vissuto fino all’anno scorso. Dopo 15 anni, mio padre ha ottenuto la cittadinanza e con lui anche io – spiega – Ora sono in Francia perché papà ha perso il lavoro e ha scelto di trasferirsi. Ma mi sento italiano ed è qui che ho tutti i miei amici, che almeno oggi ho voluto rincontrare. Appena compio 18 anni girerò tutto il mondo, perché del mondo intero mi sento figlio»
Non ne sono consapevoli, ma sono già più avanti del paese in cui abitano, delle leggi, della Bossi-Fini contro cui urlano a squarciagola che
«allora siamo tutti clandestini». Bianchi, neri e gialli.

La rabbia, il doversi sempre sentire di troppo, l'energia.
La loro storia la raccontano con parole semplici. Con un italiano sicuro, che va subito al punto.
In piazza de l’Unità, da dove prende le mosse una giornata che si concluderà  solo in serata in piazza Maggiore, chiedono
«cittadinanza subito, perché se andiamo nella stessa scuola e parliamo la stessa lingua siamo tutti uguali».

Qui in Italia i figli dei migranti li chiamano di seconda generazione. 
Una definizione che non gradiscono. 
Mohamed Fnino, per tutti “Mummo”
, ha 16 anni ed è iscritto all’istituto professionale Aldini:
«I miei genitori sono del Marocco, ma io sono nato qua, mi sento italiano – dice, con un accento quasi emiliano – Eppure la legge Bossi-Fini mi tratta da ospite. Se non avrò 18 anni di residenza continua in Italia non mi daranno la cittadinanza e mi espelleranno. Se invece sarò più fortunato e potrò restare e continuare gli studi – prosegue – dovrò fare un permesso di soggiorno per motivi di studio e garantire un tot ore di lavoro, che però non mi  consentiranno nemmeno di pagare i libri dell’Università». “Mummo” fa anche parte di un gruppo musicale – le “Anime confuse” – e con la sua musica hip hop in serata si è esibito in piazza Maggiore. Nome del disco che la band si è autoprodotta: “On the move, generazione in movimento”.

«Vogliamo la cittadinanza per i nostri figli senza condizioni – gli fa eco Sené Bazir, senegalese da 20 anni a Bologna e voce storica del Coordinamento migranti di Bologna – Devono poter vivere a pieno la loro vita. Li chiamano di seconda generazione. Ma non sono secondi a nessuno». Proprio come gli altri studenti bolognesi che sfilano insieme a loro e con cui in aula siedono vicini, gomito a gomito. «Avere la cittadinanza secondo lo Ius soli dovrebbe significare che sei cittadino se sei nato qui – fa notare – non solo se rispondi a certi requisiti come si propone da più parti. Uno fra tutti: che i tuoi genitori siano regolari». Bazir fa l’operaio, ma i suoi contratti sono tutti precari. «Questo è il nostro giorno della negazione – spiega – Siamo qui per chiedere il ritiro di ogni tassa sul permesso di soggiorno. Troviamo incivile, ingiusto e indegno dover pagare 200 euro, come stabilito dal governo Berlusconi, per ogni rinnovo». «E troviamo vergognoso che l’Italia sia l’unico paese in cui sei straniero anche se nasci qui», chiosa poi.

Viene dal Senegal anche Babacar Ndiaye.
«Ho 48 anni e sono qui da 22 – racconta – Ho fatto mille lavori, alla Coop, in fabbrica, ma ora sono disoccupato. Ho un figlio di 14 anni che vive con me, mentre mia moglie è rimasta in Africa. Il nostro – ci tiene a rimarcare – non è uno sciopero etnico. Paghiamo la crisi proprio come gli altri lavoratori e siamo qui tutti insieme, bianchi, neri e gialli, per chiedere la stessa cosa: dire no allo sfruttamento e alla precarietà perché considerare i problemi dei migranti come una questione separata rende solamente tutti più deboli e raddoppia il razzismo istituzionale, che non è quello della Lega Nord, ma quello della burocrazia».

In marcia con gli studenti c'erano alcune giovani donne, anche se quelle che svolgono i lavori di cura (le cosiddette badanti) non ci saranno nemmeno nel pomeriggio: sono rinchiuse in casa dove, chi c’è, spera abbiano raccolto almeno l’invito ad indossare un indumento giallo in segno di adesione. Non c’è nemmeno Cécile Kyenge, la fondatrice del primo marzo degli stranieri e oggi referente nazionale della rete. Quest’anno Kyenge ha preferito essere a Vittoria in Sicilia. L'abbiamo, però, raggiunta al telefono.
«La Sicilia è la porta d’Europa: è qui, soprattutto a Lampedusa, che arrivano i tanti che scappano dalla Tunisia in cerca di una vita migliore». Kyenge ha 48 anni e vive a Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, dal 1983. «Originaria della Repubblica del Congo sono venuta qui da sola perché l’Italia era l’unico posto dove mi era permesso di andare all’Università. Se fossi dovuta andare in Giappone, sarei andata lì per laurearmi». Ora è un medico ed esercita a Modena. «Ho lavorato giorno e notte per realizzare il mio sogno e oggi che faccio il medico per vivere ne ho un altro: dare ai migranti che hanno scelto questo paese il benessere che cercano».

Tra le donne dell’associazione Migranda, nata l’anno scorso proprio in occasione del primo marzo e che aveva portato in corteo delle sagome di legno per rappresentare
«le tante badanti chiuse in casa a lavorare», anche Milena Trajkouska. Viene dalla Macedonia e frequenta la specialistica alla facoltà di Giurisprudenza. Anche grazie alla sua mobilitazione, Adama Kebe, che era stata rinchiusa nel Cie di Bologna perché senza documenti dopo aver denunciato di essere stata violentata dal suo compagno, ha potuto iniziare una nuova vita. Milena non vuole parlare di sé, vuole dare voce a chi non c’è:  «Le donne sono discriminate due volte e sottoposte ad un doppio ricatto: la trafila per l’ottenimento dei documenti e le violenze che spesso subiscono in famiglia e in strada».

L’iniziativa, a cui ha aderito fra le tante sigle la Cgil che ha allestito un piccolo presidio in piazza Re Enzo, chiede anche la chiusura dei Cie.  All’appello “LasciateCIEntrare” che ha portato i giornalisti di nuovo all’interno dei centri di identificazione ed espulsione, il Coordinamento migranti affianca lo slogan “Lasciateci uscire”.
«Per noi non ci devono essere nemmeno i finanziamenti per i Cie – sottolinea una delle anime della Move Parade, Giorgio Grappi – i Cie vanno chiusi. No pure al permesso di soggiorno a punti che distingue fra immigrati qualificati (quelli che superano il test di italiano, conoscono la Costituzione e hanno un lavoro…, ndr) e immigrati clandestini da rinchiudere nei lager».

La giornata, prima di lasciar spazio al concerto hip hop - quello di “Mummo” - si è chiusa con il megafono aperto a pochi passi dalla fontana del Nettuno e nella stessa città, dove in serata si svolgeva un incontro fra il leader bolognese della Lega Nord Manes Bernardini e l’ex ministro dell’interno Roberto Maroni.
«Non siamo interessati a inseguire – commenta Sené Bazir – i fantasmi che non sono più al governo» ma a raccontare la nostra storia. Avventure tutte diverse, cominciate lontano, ma con una sola comune speranza a dispetto dei clichés che promuovono l’equazione “immigrazione uguale criminalità”: una vita migliore e, soprattutto, pari dignità in una città che hanno imparato ad amare e che sentono, nonostante tutto, ogni giorno un po’ più “casa”.


(Alessandra Testa)

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