“Non si tratta d’inventare ma di ricordare. Sepolta sotto le foglie di traumi e sofferenze.
Sotto il fiume di sperma e squallore. Vagine e labbra.
Strappate ed estratte. Rubate. Miniere di corpi. Corpi scavati.
Adesso non si tratta di chiedere o di aspettare. Si tratta di insorgere”.
‘Rising’, Eve Ensler
«Abbiamo avuto l’idea scandalosa che si potesse porre fine alla violenza contro le donne. Da allora, centinaia di migliaia di attiviste/i in oltre 140 paesi nel mondo, sui palcoscenici e dal pubblico del ‘V-Day’, si sono uniti per chiedere di porre fine alla violenza contro donne e bambine».
Così Eve Ensler scrittrice e performer americana, autrice de "I monologhi della vagina", descrive gli esordi e le tappe successive del ‘V-Day’,movimento internazionale per la mobilitazione, il contrasto e la prevenzione della violenza sulle donne, da lei stessa fondato oltre 15 anni fa.
Attraverso il ‘V-Day’, migliaia di donne, di ogni età e provenienza, madri, figlie, nonne, nipoti, professioniste e impiegate, operaie e casalinghe, spesso attrici dilettanti, sono salite su un palco – da quelli di provincia a quelli dei maggiori teatri di tutto il mondo – e hanno messo in scena "I monologhi della vagina", contribuendo all’autofinanziamento dell’associazione internazionale e alla raccolta fondi per le organizzazioni e i progetti che nel mondo si battono contro tutti i tipi di violenza, incluso lo stupro, l'incesto, la mutilazione genitale femminile e la schiavitù sessuale.
Il ‘V-Day’ è stato definito: «Una delle più efficaci campagne di sensibilizzazione contro la violenza dell’ultimo decennio. Un affresco di femminilità, coraggio e umorismo che ha fatto arrossire, ridere e commuovere le platee internazionali».
Ad oggi l’Associazione ‘V-Day’ allestisce nel mondo più di 1.500 eventi creativi l’anno, fra rappresentazioni teatrali, incontri e workshop.
Da quest’anno anche l’’Italia è entrata ufficialmente a far parte del tavolo internazionale per l’organizzazione della campagna mondiale contro la violenza sulle donne.
Sono Nicoletta Corradini ed Elena Montorsi del Comitato ‘V-Day’ di Modena, insieme alla portavoce italiana di Eve Ensler Nicoletta Billi, le coordinatrici del ‘V-Day“ 2014 – Italia, nominate nel corso dell’ultimo meeting programmatico che si è svolto il 3 e 4 aprile a New York, al quale le tre italiane hanno partecipato in rappresentanza del nostro Paese.
Ha contribuito al raggiungimento di questo importante passo per l’Italia, il successo ottenuto da ‘One Billion Rising’, la campagna di mobilitazione internazionale per celebrare il 15° anniversario del ‘V-Day’, svoltasi lo scorso 14 febbraio e coordinata a livello nazionale dalla Corradini e dalla Montorsi, che ha portato in duecento città italiane oltre 300mila persone, con 250 eventi e la presenza di oltre 400 associazioni.
La riuscita di questa iniziativa parte da una esperienza nata dal basso a Modena (promossa da associazioni femminili, gruppi di donne e singole) dove lo spettacolo dei monologhi va avanti da ben 7 anni, unico esempio in Italia, coinvolgendo sempre più persone e città (ad oggi 23): prima Parma e Reggio Emilia, poi città come Brescia, Taranto e Napoli che non avevano mai portato in scena il ‘V-Day’.
La testimonianza di questo impegno ha colpito le fondatrici dell’importante organizzazione statunitense.
«La nostra presenza a New York – ha detto la Corradini - è stata accolta con molto entusiasmo dalla stessa Eve Ensler e dai suoi collaboratori e collaboratrici. L’enorme partecipazione che abbiamo riscontrato a febbraio nelle piazze italiane, ha sorpreso e stupito tutti».
La riunione operativa di New York ha visto la presenza di 22 partecipanti, oltre alle fondatrici del movimento tra cui Eve Ensler, in rappresentanza dei diversi territori dove la campagna ha luogo: Stati Uniti, Centro America, Sud Africa, India e Filippine, Inghilterra, Balcani e Paesi dell’Est Europa e Italia.
L’iniziativa è stata l’occasione per fare il punto sulle ultime campagne mondiali di ‘One Billion Rising’ e ‘V-Day’, molte delle quali hanno visto l’attivo sostegno delle Istituzioni con la formalizzazione di impegni concreti contro la violenza alle donne come è avvenuto per la città di Los Angeles, e per individuare i temi della prossima iniziativa globale che sarà incentrata sulle questioni legislative.
«Il riconoscimento che arriva dagli Stati Uniti – conclude Nicoletta Corradini -. ci ha datogrande soddisfazione e ci motiva ad andare avanti per coinvolgere attraverso il ‘V-Day’ sempre più persone verso un importante cambiamento culturale sulla prevenzione e sul contrasto alla violenza, utilizzando nuovi approcci comunicativi per agire la politica attraverso l’uso della creatività e delle arti.
La prossima campagna 2014 sarà incentrata sul tema della giustizia. Anche in Italia il ‘V-Day’ si farà parte attiva, chiedendo alla politica interventi urgenti. In primo piano, la ratifica della Convenzione di Istanbul, come primo passo per tutelare le donne da discriminazione, femminicidi, violenza.
Tutti i parlamentari, uomini e donne, saranno quindi chiamati ad uno sforzo congiunto, un impegno trasversale all’interno delle diverse forze politiche, per vincere finalmente questa lotta di civiltà, che da anni mobilita il nostro Paese, e arrivare al pronunciamento di una legge sulla violenza contro le donne».
‘I monologhi della vagina’
Il testo teatrale è la raccolta delle testimonianze di 200 donne di ogni età, provenienza e condizione sociale, che hanno raccontato le proprie esperienze di ordinaria quotidianità, e di altrettanto ordinaria violenza, a Eve Ensler, drammaturga, poetessa, sceneggiatrice e docente universitaria americana, che si è lasciata coinvolgere tanto da improvvisarsi anche attrice per la prima teatrale a New York.
Lo spettacolo, che in seguito ha attraversato gli Stati Uniti e da anni è in viaggio per il mondo, è stato
considerato dal New York Times “probabilmente il più importante pezzo di teatro politico dell’ultimo decennio”.
(Daniela Ricci)
Altre informazioni
http://obritalia.livejournal.com/
http://onebillionrising.org/
https://www.facebook.com/groups/onebillionitalia/
martedì 30 aprile 2013
lunedì 29 aprile 2013
Cécile Kyenge, le battaglie per lo ius soli e l'abolizione dei Cie entrano a Palazzo Chigi
Cittadina italiana nata nella Repubbica democratica del Congo, Cécile Kyenge Kashetu è il nuovo ministro dell'integrazione e della cooperazione internazionale. Il colore della sua pelle ha fatto saltare da sopra la sedia gli esponenti della Lega Nord, ma tant'è: residente a Castelfranco Emilia in quel di Modena, è abituata da oltre vent'anni a dribblare i pregiudizi. Da quel "negretta" con cui un commerciante xenofobo la cacciò dal proprio negozio alle più recenti minacce ricevute su Facebook.
Col suo sorriso fiero, Cécile non ha mai dato troppa importanza alle reazioni di chi ha paura della diversità ed è sempre andata dritta per la sua strada.
La laurea in medicina, specializzazione oculistica, poi l'attività politica prima nei Ds e ora nel Pd, che in Emilia Romagna le ha affidato il ruolo di responsabile regionale delle politiche dell'immigrazione.
I più attenti se la ricorderanno in prima linea, seppur mai sotto i riflettori. In corteo, nelle piazze, nelle stanze meno al sole della politica. Negli ultimi tempi per "gridare" che chi nasce in Italia da genitori stranieri è, e deve essere considerato, italiano. Ma prima ancora - era il primo marzo 2010 - tra le anime del primo sciopero dei lavoratori stranieri. Quella "giornata senza di noi" che rammenta che se non ci fossero "loro" - come li chiama qualcuno avendo come alibi la legge Bossi-Fini - interi comparti economici si fermerebbero. L'edilizia e il lavoro di cura, per esempio, a dimostrazione che, se lo si vuole, l'integrazione non solo è possibile ma è spesso già realtà.
E poi Cécile era lì, in tutti quei luoghi dimenticati dai media cosiddetti ufficiali. Le associazioni di donne, dove italiane e migranti si confrontano da anni, gli incontri dove si cercano le strade giuste per dare concretezza alla parola intercultura e in quei lager moderni chiamati Cie, dove vengono trattenuti i migranti sottoposti a provvedimenti di espulsione o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera nel caso in cui il provvedimento non sia immediatamente eseguibile ma in cui basta non avere un documento di identità e avere la pelle o l'accento del colore sbagliato per finire reclusi a tempo indeterminato. Una "barbarie" istituita nel 1998 (prima erano i Cpt) dalla legge Turco-Napolitano che oggi anche la stampa di tutta Italia ha potuto toccare con mano grazie alla campagna "Lasciateci Entrare" di cui Cécile è fra le promotrici. I giornalisti, Cécile, li ha accompagnati nei centri di identificazione ed espulsione di tutta Italia ed ha manifestato davanti ai cancelli più volte per gridare che la clandestinità non è un reato. I reati sono altri e, come tali, vanno perseguiti indipendentemente da chi li commette.
Cécile Kyenge Kashetu ora che il neo premier Enrico Letta l'ha voluta a Palazzo Chigi la conoscono tutti. Ma sono soprattutto i "senza voce" a tifare per lei. I tanti giovani, che sono nati qui e qui studiano, stringono amicizie e si innamorano ma che devono attendere il compimento dei 18 anni per diventare a tutti gli effetti italiani. E soprattutto i loro genitori, padri e madri che dal loro arrivo in questo paese combattono con la burocrazia. Per il rinnovo dei permessi di soggiorno, per l'ottenimento della cittadinanza e, dunque, per il riconoscimento del diritto di voto. Uomini e donne che sperano che per i loro figli il futuro sarà più facile. E poi i più sfortunati, quelli fuggiti dal loro paese e che qui cercano una nuova vita lontani da guerre ed oppressione. E che continuano ad essere confusi con chi delinque anche quando si comportano secondo le regole dello stato che li accoglie.
La nomina di Cécile è sicuramente l'unico vero cambiamento portato da questo nuovo governo che, si condividano o meno le larghe intese, sa però ancora troppo di stantio.
Già la sua candidatura da parte del Pd è stata una sorpresa, speriamo ora che questa nomina sia davvero un passo avanti e non l'ennesima operazione di marketing di un centrosinistra allo sbando che suole confondere il politicaly correct e il dover essere con il giusto e l'essere.
Cécile e tutti quelli che ce l'hanno sempre messa tutta non se lo meritano.
(Alessandra Testa)
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Malata di Aids nel Cie di Bologna
Il primo marzo sotto le Due Torri
Adama e i diritti degli invisibili
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Sono le donne migranti a trainare la crescita demografica
Il verbo "badare" sta a metà fra "amare" e "lavorare"
Col suo sorriso fiero, Cécile non ha mai dato troppa importanza alle reazioni di chi ha paura della diversità ed è sempre andata dritta per la sua strada.
La laurea in medicina, specializzazione oculistica, poi l'attività politica prima nei Ds e ora nel Pd, che in Emilia Romagna le ha affidato il ruolo di responsabile regionale delle politiche dell'immigrazione.
I più attenti se la ricorderanno in prima linea, seppur mai sotto i riflettori. In corteo, nelle piazze, nelle stanze meno al sole della politica. Negli ultimi tempi per "gridare" che chi nasce in Italia da genitori stranieri è, e deve essere considerato, italiano. Ma prima ancora - era il primo marzo 2010 - tra le anime del primo sciopero dei lavoratori stranieri. Quella "giornata senza di noi" che rammenta che se non ci fossero "loro" - come li chiama qualcuno avendo come alibi la legge Bossi-Fini - interi comparti economici si fermerebbero. L'edilizia e il lavoro di cura, per esempio, a dimostrazione che, se lo si vuole, l'integrazione non solo è possibile ma è spesso già realtà.
E poi Cécile era lì, in tutti quei luoghi dimenticati dai media cosiddetti ufficiali. Le associazioni di donne, dove italiane e migranti si confrontano da anni, gli incontri dove si cercano le strade giuste per dare concretezza alla parola intercultura e in quei lager moderni chiamati Cie, dove vengono trattenuti i migranti sottoposti a provvedimenti di espulsione o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera nel caso in cui il provvedimento non sia immediatamente eseguibile ma in cui basta non avere un documento di identità e avere la pelle o l'accento del colore sbagliato per finire reclusi a tempo indeterminato. Una "barbarie" istituita nel 1998 (prima erano i Cpt) dalla legge Turco-Napolitano che oggi anche la stampa di tutta Italia ha potuto toccare con mano grazie alla campagna "Lasciateci Entrare" di cui Cécile è fra le promotrici. I giornalisti, Cécile, li ha accompagnati nei centri di identificazione ed espulsione di tutta Italia ed ha manifestato davanti ai cancelli più volte per gridare che la clandestinità non è un reato. I reati sono altri e, come tali, vanno perseguiti indipendentemente da chi li commette.
Cécile Kyenge Kashetu ora che il neo premier Enrico Letta l'ha voluta a Palazzo Chigi la conoscono tutti. Ma sono soprattutto i "senza voce" a tifare per lei. I tanti giovani, che sono nati qui e qui studiano, stringono amicizie e si innamorano ma che devono attendere il compimento dei 18 anni per diventare a tutti gli effetti italiani. E soprattutto i loro genitori, padri e madri che dal loro arrivo in questo paese combattono con la burocrazia. Per il rinnovo dei permessi di soggiorno, per l'ottenimento della cittadinanza e, dunque, per il riconoscimento del diritto di voto. Uomini e donne che sperano che per i loro figli il futuro sarà più facile. E poi i più sfortunati, quelli fuggiti dal loro paese e che qui cercano una nuova vita lontani da guerre ed oppressione. E che continuano ad essere confusi con chi delinque anche quando si comportano secondo le regole dello stato che li accoglie.
La nomina di Cécile è sicuramente l'unico vero cambiamento portato da questo nuovo governo che, si condividano o meno le larghe intese, sa però ancora troppo di stantio.
Già la sua candidatura da parte del Pd è stata una sorpresa, speriamo ora che questa nomina sia davvero un passo avanti e non l'ennesima operazione di marketing di un centrosinistra allo sbando che suole confondere il politicaly correct e il dover essere con il giusto e l'essere.
Cécile e tutti quelli che ce l'hanno sempre messa tutta non se lo meritano.
(Alessandra Testa)
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domenica 28 aprile 2013
Dominazione e potere in controsenso alla dignità
Annichilamento e distruzione lentamente stanno riducendo i territori dei più antichi abitanti delle nostre terre sudamericane: i nostri indigeni, il “fratello minore” (come loro chiamano l’uomo bianco) non si ferma nella sua corsa per sfruttare la ricchezza che emana dalle loro terre: ci sono risorse energetiche, minerali ed ambientali che in certi casi fanno parte di quello che nel 1890 il governo colombiano ha definito come “territori indigeni protetti”: proprietà collettiva con giurisdizione propria, per questo motivo sono costantemente minacciati.
La popolazione indigena in Colombia rappresenta il 2,74%, sono circa 1.378.884 abitanti, il 49,6% sono donne e il 50,4% sono uomini, abitano in 30 delle 32 regioni di tutto il paese, lo stato colombiano ne riconosce solo 86 popoli dei 102 dichiarati dalla ONIC Organizzazione Nazionale Indigena Colombiana, sono 642 riserve indigene, sessantasei lingue ed altrettante in pericolo di estinzione. Questi popoli sono un patrimonio storico, per loro la terra è la madre, dove ha origine la vita e da quella dipende la loro esistenza. Il conflitto armato che vive la Colombia ha portato con sé la militarizzazione di quasi la totalità dei loro territori. " La violenza sessuale contra le donne indigene è in continuo aumento: costituisce una strategia di guerra orientato a umiliare il nemico distruggendo la loro dignità, le incursioni nelle loro terre da parte di gruppi armati scatena stupri, prostituzione, schiavitù sessuale ed esecuzion"i.
Poche volte si aprono inchieste per cercare di punire i colpevoli e alla fine sono le stesse donne ad essere incolpate, ancora oggi l’impunità ha la meglio. Queste aggressioni da parte dei diversi protagonisti del conflitto armato non sono denunciate oppure sono dichiarate solo all’interno delle comunità indigene, essere vittima di queste violenze causa molte volte l’isolamento da parte della comunità non solo per le donne ma anche per le loro famiglie, è violentare anche l’onore dei parenti delle donne.
La Corte Costituzionale colombiana nel 2008 chiedeva al Fiscale Generale della nazione di adottare delle misure al fine di accelerare le investigazioni delle denuncie fatte per le diverse comunità indigene dato che fino a quel momento la Commissione Interamericana di Diritti Umani aveva costatato la poca attenzione da parte della giustizia ordinaria. C’è una costante: la discriminazione contra le donne indigene. Donne indigene o no sono cittadine, individui e queste distinzioni da parte delle autorità fanno sì che aumenti ancora di più la violenza di genere.
La ONIC Organizzazione Nazionale Indigena Colombiana è un progetto politico e organizzativo di carattere nazionale che costituisce una scommessa dei popoli indigeni colombiani per la difesa e protezione dei loro diritti collettivi e culturali nei principi del movimento indigena: unità, terra, cultura e autonomia. Nel mese di maggio 2012 la ONIC ha intrapreso diverse iniziative con un emblema: “el cuerpo de las mujeres no es botìn de guerra” (il corpo delle donne non è bottino di guerra), in uno dei loro informi ci sono delle testimonianze reali che superano il peggiore degli incubi.
La violenza contra le donne indigene è diventata abituale, estesa, sistematica ed invisibile nel contesto del conflitto colombiano.
Le donne indigene colombiane appartenente alla ONIC e le diverse organizzazioni per la difesa dei Diritti Umani presso la ONU chiedono un governo in grado di rispettare l’autonomia dei diversi popoli che possa anche garantire una giustizia con uno sguardo etnico e di genere per riuscire a creare programmi mirati all’implementazione di politiche di formazione, educazione e sostegno psicologico, dal contesto culturale a quello spirituale per la creazione di strategie comunitarie antiviolenza.
(Jhoana Ostos Tavera)
La popolazione indigena in Colombia rappresenta il 2,74%, sono circa 1.378.884 abitanti, il 49,6% sono donne e il 50,4% sono uomini, abitano in 30 delle 32 regioni di tutto il paese, lo stato colombiano ne riconosce solo 86 popoli dei 102 dichiarati dalla ONIC Organizzazione Nazionale Indigena Colombiana, sono 642 riserve indigene, sessantasei lingue ed altrettante in pericolo di estinzione. Questi popoli sono un patrimonio storico, per loro la terra è la madre, dove ha origine la vita e da quella dipende la loro esistenza. Il conflitto armato che vive la Colombia ha portato con sé la militarizzazione di quasi la totalità dei loro territori. " La violenza sessuale contra le donne indigene è in continuo aumento: costituisce una strategia di guerra orientato a umiliare il nemico distruggendo la loro dignità, le incursioni nelle loro terre da parte di gruppi armati scatena stupri, prostituzione, schiavitù sessuale ed esecuzion"i.
Poche volte si aprono inchieste per cercare di punire i colpevoli e alla fine sono le stesse donne ad essere incolpate, ancora oggi l’impunità ha la meglio. Queste aggressioni da parte dei diversi protagonisti del conflitto armato non sono denunciate oppure sono dichiarate solo all’interno delle comunità indigene, essere vittima di queste violenze causa molte volte l’isolamento da parte della comunità non solo per le donne ma anche per le loro famiglie, è violentare anche l’onore dei parenti delle donne.
La Corte Costituzionale colombiana nel 2008 chiedeva al Fiscale Generale della nazione di adottare delle misure al fine di accelerare le investigazioni delle denuncie fatte per le diverse comunità indigene dato che fino a quel momento la Commissione Interamericana di Diritti Umani aveva costatato la poca attenzione da parte della giustizia ordinaria. C’è una costante: la discriminazione contra le donne indigene. Donne indigene o no sono cittadine, individui e queste distinzioni da parte delle autorità fanno sì che aumenti ancora di più la violenza di genere.
La ONIC Organizzazione Nazionale Indigena Colombiana è un progetto politico e organizzativo di carattere nazionale che costituisce una scommessa dei popoli indigeni colombiani per la difesa e protezione dei loro diritti collettivi e culturali nei principi del movimento indigena: unità, terra, cultura e autonomia. Nel mese di maggio 2012 la ONIC ha intrapreso diverse iniziative con un emblema: “el cuerpo de las mujeres no es botìn de guerra” (il corpo delle donne non è bottino di guerra), in uno dei loro informi ci sono delle testimonianze reali che superano il peggiore degli incubi.
La violenza contra le donne indigene è diventata abituale, estesa, sistematica ed invisibile nel contesto del conflitto colombiano.
Le donne indigene colombiane appartenente alla ONIC e le diverse organizzazioni per la difesa dei Diritti Umani presso la ONU chiedono un governo in grado di rispettare l’autonomia dei diversi popoli che possa anche garantire una giustizia con uno sguardo etnico e di genere per riuscire a creare programmi mirati all’implementazione di politiche di formazione, educazione e sostegno psicologico, dal contesto culturale a quello spirituale per la creazione di strategie comunitarie antiviolenza.
(Jhoana Ostos Tavera)
venerdì 12 aprile 2013
Libere di cantare, libere di vivere
"Nel momento nel quale smettiamo di sognare finisce tutto... io voglio continuare a sognare, la musica mi ha dato la possibilità di capire che ci sono cose che la guerra non ti può togliere..." ed è proprio grazie a quella che Daira Quinonez cominciò ad esorcizzare i suoi fantasmi, a costruire a partire della desolazione che la violenza aveva seminato nel suo paese. A Tumaco, i suoi abitanti sono nella grande maggioranza afro-colombiani e anche indigeni, situata al sud-est della Colombia ed affiancata ad ovest da l'oceano Pacifico è una regione che da metà degli anni 90' il fenomeno dei desplazados ha lasciato soltanto devastazione, nel 2009 la Commissione di Monitoraggio sulle Politiche Pubbliche sui desplazados "Comisiòn de Seguimiento a La Polìtica Pùblica sobre Desplazamiento Forzado" ha stabilito che il 52,4% della popolazione dei desplazados di tutto il paese sono donne, madri con i loro figli che devono abbandonare le loro terre, il lavoro e i loro averi per salvare le proprie vite e quella delle loro famiglie, in tanti casi dovendo assumere il ruolo di capi famiglia e badando anche ad altri che sono rimasti orfani e senza protezione.
In un paese come la Colombia in guerra nelle campagne da più di cinquant'anni ogni giorno arrivano nella capitale persone da tutto il paese, persone come Daira, famiglie intere che cercano di trovare un posto dove riprendirsi un futuro e la dignità che li è stata tolta. Dopo avere avuto un pò di terra da coltivare, un lavoro, una scuola dove mandare i loro figli, una storia di vita fatta di generazioni nate e cresciute nello steso posto, molti ricordi e tradizioni di tramandare, la lotta per il dominio dei coltivi illeciti lascia soltanto dolore e un grande senso di sconfitta. Alla fine della sofferenza, dello sconforto e la consapevolezzadi quello che hai perso e non riavrai molte desplazadas come Daira hanno asciugato le loro lacrime trovando il coraggio di ricominciare per le loro famiglie, i figli e soprattutto per chi non c'è l'ha fatta, perchè non ci siano più morti e le comunità afro-colombiane, indigene e di tutte le razze possano vivere con tranquillità nei loro territori, senza paure; nasce cosi la Fondazione di Donne desplazadas dal Pacifico, "Fundaciòn de Mujeres desplazadas del Pacìfico", un centro di ritrovo di donne da questa regione della Colombia, un progetto produttivo che favorirà più di centro famiglie Afro di Bogotà. Il progetto ha trovato alcuni finanziatori e sarà un centro di ritrovo nella Candelaria, quartiere storico di Bogotà, ispirato in un villaggio ecologico "ecoaldea" dove ci saranno alcuni orti coltivati dalle donne, i pavimenti in "chonta" un tipo di palma Centroamericana e terrazze verdi in modo di riutilizzare le risorse che offre il clima della città. Per adesso il progetto è approvato, i disegni e anche i macchinari per la costruzione di materie prime da elaborare con la pelle dei pesci, in questo modo si potrà anche fortificare una rete di tessuto sociale a Bogotà e nella Costa Pacifica, da dove loro provengono.
Il contributo più inestimabile per cominciare a consolidare questo progetto è stato proprio quello della gente comune, persone che credono che una società come la nostra possa essere sempre diversa, in Colombia ormai da diverse decade si vive nella violenza ma è anche vero che l'indifferenza contribuisce soltanto ad aumentarla, per questo che Daira ed altre donne del pacifico organizzano ogni tanto delle feste come "La Fiesta del Patacòn", delle serate dove si può mangiare qualche piato tipico della loro regione e il canto di Daira ed altre donne evoca ai presenti l'incanto delle nostro terre, le nostre radici e l'amore per la vita, sono canti pieni di speranza.
Daira rappresenta migliaia di persone che oggi vivono la peggiore delle guerre, una guerra silenziosa e deplorevole in una società nella quale a forza di sentire in tutti i media ogni giorni il resoconto dei morti della giornata ci stiamo dimenticando della profondità della violenza.
(Jhoana Ostos Tavera)
In un paese come la Colombia in guerra nelle campagne da più di cinquant'anni ogni giorno arrivano nella capitale persone da tutto il paese, persone come Daira, famiglie intere che cercano di trovare un posto dove riprendirsi un futuro e la dignità che li è stata tolta. Dopo avere avuto un pò di terra da coltivare, un lavoro, una scuola dove mandare i loro figli, una storia di vita fatta di generazioni nate e cresciute nello steso posto, molti ricordi e tradizioni di tramandare, la lotta per il dominio dei coltivi illeciti lascia soltanto dolore e un grande senso di sconfitta. Alla fine della sofferenza, dello sconforto e la consapevolezzadi quello che hai perso e non riavrai molte desplazadas come Daira hanno asciugato le loro lacrime trovando il coraggio di ricominciare per le loro famiglie, i figli e soprattutto per chi non c'è l'ha fatta, perchè non ci siano più morti e le comunità afro-colombiane, indigene e di tutte le razze possano vivere con tranquillità nei loro territori, senza paure; nasce cosi la Fondazione di Donne desplazadas dal Pacifico, "Fundaciòn de Mujeres desplazadas del Pacìfico", un centro di ritrovo di donne da questa regione della Colombia, un progetto produttivo che favorirà più di centro famiglie Afro di Bogotà. Il progetto ha trovato alcuni finanziatori e sarà un centro di ritrovo nella Candelaria, quartiere storico di Bogotà, ispirato in un villaggio ecologico "ecoaldea" dove ci saranno alcuni orti coltivati dalle donne, i pavimenti in "chonta" un tipo di palma Centroamericana e terrazze verdi in modo di riutilizzare le risorse che offre il clima della città. Per adesso il progetto è approvato, i disegni e anche i macchinari per la costruzione di materie prime da elaborare con la pelle dei pesci, in questo modo si potrà anche fortificare una rete di tessuto sociale a Bogotà e nella Costa Pacifica, da dove loro provengono.
Il contributo più inestimabile per cominciare a consolidare questo progetto è stato proprio quello della gente comune, persone che credono che una società come la nostra possa essere sempre diversa, in Colombia ormai da diverse decade si vive nella violenza ma è anche vero che l'indifferenza contribuisce soltanto ad aumentarla, per questo che Daira ed altre donne del pacifico organizzano ogni tanto delle feste come "La Fiesta del Patacòn", delle serate dove si può mangiare qualche piato tipico della loro regione e il canto di Daira ed altre donne evoca ai presenti l'incanto delle nostro terre, le nostre radici e l'amore per la vita, sono canti pieni di speranza.
Daira rappresenta migliaia di persone che oggi vivono la peggiore delle guerre, una guerra silenziosa e deplorevole in una società nella quale a forza di sentire in tutti i media ogni giorni il resoconto dei morti della giornata ci stiamo dimenticando della profondità della violenza.
(Jhoana Ostos Tavera)
giovedì 11 aprile 2013
La morte insopportabile
Le figlie sono amorevoli. Si preoccupano. Si “occupano”.
Sgridano. Pretendono. Decidono.
Le figlie sono competitive. Insofferenti. Ricattatorie. Immature.
Ieri, in bus, ore 13.30, linea 19 da San Lazzaro.
Una signora di circa 60 anni chiacchiera con un’altra, più anziana. E’ un monologo – l’amica tenta di partecipare, ma la signora sessantenne (cappello, occhiali da sole, sciarpona e tacchi a spillo) non riesce a trattenere uno sciorinare inarrestabile di parole.
<<Lei, la mamma, ha 89 onni. Quindi, ho paura. Infatti, le sto facendo fare tutti i controlli, tutti gli esami clinici…. Gliel’ho detto al mio medico, “guardi, io ho paura, ho paura che succeda qualcosa…”… Perché poi, lei non è mica una che sta attenta, per esempio, a mangiare quello che deve mangiare: ieri ha mangiato due uova fritte, che se le mangio io sto male una settimana. Le ho detto, “mamma, devi imparare a mangiare BENE, bene, mica quello schifo lì che ti fa venire il colesterolo….”, ma lei, niente!, fa come le pare, e allora io son preoccupata, ma insomma, non si può mai star tranquilli. Poi è da sola, mio papà, lo sai non c’è più, avrebbe 83 anni, adesso, ma è morto che ne aveva 52, è già da mo’ che è morto, ma lei non si è mica abituata, come si fa a abituarsi, nemmeno io, se è per quello, e così domani vado ancora al Montebello, la porto lì perché è più comodo, anche se faccio fatica coi parcheggi, alle volte la porto in bus… ma lei non vuole, e mi dice, “cosa ci vado a fare”, le dico “mamma, non buttarti giù così, insomma, pensa un po’ anche alla salute!2, ma a lei, guarda!, sembra che non le importi niente…>>
Ricordo al Centro Antalgik di via Irnerio, qualche anno fa, un vecchissimo uomo, fragile come una carta velina, accompagnato da due persone, entrare a fare un’ecografia, e l’infermiera che sbottava, dopo che i parenti l’avevano fatto entrare: ”Ancora? Anche oggi son tornati?? Ma lasciatelo stare, basta, è una tortura!”.
Ecco: io penso che sia una tortura, una tortura perpetrata con efferatezza, quest’accanimento nel non voler accettare la vita, e la morte, con dignitosa pacatezza. Io penso che non sia accudimento, che non sia amore, quello di non tollerare l’anzianità dei genitori, il loro dolce cambiare e accettare una nuova calma, garbata visione meno attiva e combattiva della vita. Credo che sia una forma di infantile capriccio, di egoismo immaturo e prevaricatore quello di certe figlie che, scavalcando le necessità quotidiane delle loro madri, pretendono da loro performance, modi di agire e di pensare, e modi di vedere se stesse, così intolleranti nei confronti dell’anzianità, che può essere una stagione di ricchezza ed emozioni, di sentimenti e condivisione, ma forse lo è meno di azione e di attività.
A 89 anni la signora mangia le uova fritte e le digerisce, e soprattutto le gradisce. Cosa c’è di sbagliato, nel mangiarle? La figlia no, non le digerisce. Ma la madre SI’. Il padre è morto da 21 anni: cosa spinge questa figlia a dire che non si è “abituata”? Chi, esattamente, non si è abituata? La madre, o lei? Da dove viene questo attaccamento disperato, e disperante, a situazioni che ci fanno sentire solo in uno stato di perdita, di sconsolatezza? Non lo capisco.
Ma continuo ad ascoltare la gente, per le strade.
Cosa sentirò, domani?
(Alessandra Lazzari)
Sgridano. Pretendono. Decidono.
Le figlie sono competitive. Insofferenti. Ricattatorie. Immature.
Ieri, in bus, ore 13.30, linea 19 da San Lazzaro.
Una signora di circa 60 anni chiacchiera con un’altra, più anziana. E’ un monologo – l’amica tenta di partecipare, ma la signora sessantenne (cappello, occhiali da sole, sciarpona e tacchi a spillo) non riesce a trattenere uno sciorinare inarrestabile di parole.
<<Lei, la mamma, ha 89 onni. Quindi, ho paura. Infatti, le sto facendo fare tutti i controlli, tutti gli esami clinici…. Gliel’ho detto al mio medico, “guardi, io ho paura, ho paura che succeda qualcosa…”… Perché poi, lei non è mica una che sta attenta, per esempio, a mangiare quello che deve mangiare: ieri ha mangiato due uova fritte, che se le mangio io sto male una settimana. Le ho detto, “mamma, devi imparare a mangiare BENE, bene, mica quello schifo lì che ti fa venire il colesterolo….”, ma lei, niente!, fa come le pare, e allora io son preoccupata, ma insomma, non si può mai star tranquilli. Poi è da sola, mio papà, lo sai non c’è più, avrebbe 83 anni, adesso, ma è morto che ne aveva 52, è già da mo’ che è morto, ma lei non si è mica abituata, come si fa a abituarsi, nemmeno io, se è per quello, e così domani vado ancora al Montebello, la porto lì perché è più comodo, anche se faccio fatica coi parcheggi, alle volte la porto in bus… ma lei non vuole, e mi dice, “cosa ci vado a fare”, le dico “mamma, non buttarti giù così, insomma, pensa un po’ anche alla salute!2, ma a lei, guarda!, sembra che non le importi niente…>>
Ricordo al Centro Antalgik di via Irnerio, qualche anno fa, un vecchissimo uomo, fragile come una carta velina, accompagnato da due persone, entrare a fare un’ecografia, e l’infermiera che sbottava, dopo che i parenti l’avevano fatto entrare: ”Ancora? Anche oggi son tornati?? Ma lasciatelo stare, basta, è una tortura!”.
Ecco: io penso che sia una tortura, una tortura perpetrata con efferatezza, quest’accanimento nel non voler accettare la vita, e la morte, con dignitosa pacatezza. Io penso che non sia accudimento, che non sia amore, quello di non tollerare l’anzianità dei genitori, il loro dolce cambiare e accettare una nuova calma, garbata visione meno attiva e combattiva della vita. Credo che sia una forma di infantile capriccio, di egoismo immaturo e prevaricatore quello di certe figlie che, scavalcando le necessità quotidiane delle loro madri, pretendono da loro performance, modi di agire e di pensare, e modi di vedere se stesse, così intolleranti nei confronti dell’anzianità, che può essere una stagione di ricchezza ed emozioni, di sentimenti e condivisione, ma forse lo è meno di azione e di attività.
A 89 anni la signora mangia le uova fritte e le digerisce, e soprattutto le gradisce. Cosa c’è di sbagliato, nel mangiarle? La figlia no, non le digerisce. Ma la madre SI’. Il padre è morto da 21 anni: cosa spinge questa figlia a dire che non si è “abituata”? Chi, esattamente, non si è abituata? La madre, o lei? Da dove viene questo attaccamento disperato, e disperante, a situazioni che ci fanno sentire solo in uno stato di perdita, di sconsolatezza? Non lo capisco.
Ma continuo ad ascoltare la gente, per le strade.
Cosa sentirò, domani?
(Alessandra Lazzari)
giovedì 4 aprile 2013
VuotE a perdere - CORPO DI DONNA – AMATO, OFFESO
I racconti delle donne immigrate sul proprio vissuto sono un privilegio
che loro ci concedono in un rapporto di fiducia - condizione
indispensabile per un lavoro assieme.
SONO STORIE – COME TANTE ALTRE – SOPRATTUTTO DI VIOLENZA
ALL’INTERNO DELLA FAMIGLIA – FRA LE MURA DOMESTICHE
…. e se togliamo il riferimento ai
Paesi e a qualche nota di costume tipica di quel territorio, diventano storie
di donne di QUALSIASI paese del mondo.
Tutte uguali – tutte diverse
violenza sul
loro corpo DI DONNA
“tanto amato tanto offeso “.
“tanto amato tanto offeso “.
Nessuna delle amiche immigrate è nominata nelle storie col suo vero nome – volutamente abbiamo
preferito non coinvolgerle in prima persona in questo progetto, e
proteggerle da una visibilità ancora troppo forte per loro.
- Nawal
Mio marito mi ha sempre amata moltissimo –
fin dalla prima volta che mi ha vista al mio paese –
Io avevo 13 anni e lui quaranta.
Lui italiano musulmano, venuto in Egitto per lavoro -
Io ero molto innamorata di lui – ci siamo sposati che
avevo 16 anni –
Per me sposare lui- biondo con gli occhi
azzurri- - e uscire dalla povertà della mia famiglia, venendo
in Italia, era un meraviglioso SOGNO
PER ME—LUI ERA UN MITO -- UN AMICO-- UN FRATELLO
--UN PADRE--OLTRE CHE UN MARITO
Lui continuava ad amarmi infinitamente - giurandomi che sarei stata la sua unica donna
.la sua bimba – sposa
Io dipendevo in tutto da lui …ma ero felice.
Pensavo fosse la condizione normale.
A dire il vero mi faceva fare la signora.
Ma un bel giorno - sempre amandomi infinitamente
( così andava sostenendo ) ha pensato bene di innamorarsi di un’altra donna
Come da tradizione musulmana - mi ha chiesto il
permesso di sposarla e di portarla a vivere nella nostra casa con
noi e i nostri 2 figli …
Mi sono sentita offesa- tradita – umiliata
- annullata
--- io non avrei dato mai il consenso ad un
altro matrimonio - piuttosto ero disposta a separarmi da lui e a
rimanere sola con i figli ….
Ho vissuto lunghi abbandoni…. Il disagio dei
bambini – i commenti non belli di chi ci conosce.. IL SUO
PENTIMENTO, LE SUE LACRIME …
Viviamo ancora assieme –
Lui cerca di essere gentile con me, e la situazione è
più tranquilla ma dentro di me si è rotto qualcosa che non so se
riuscirò mai a ricomporre
In un certo senso però mi sento più forte – come
se fosse venuta fuori la mia parte migliore -- senza offendere la mia dignità –
mi sento cresciuta improvvisamente
Ho cercato un lavoro.
ADESSO - esco DA CASA al mattino presto
per andare a lavorare e incontro molta gente
Ho scoperto che avere i soldi miei e stare
con le altre donne dà più forza e sicurezza.
- Kadija
Mi diceva che era innamorato di me- che mi
amava e che in Italia ci sarebbe
stata ad aspettarmi una bella casa e tante tante altre comodità.
Anche lui mi piaceva- mi sembrava un uomo
sincero, per questo ho acconsentito alle nozze, anche se la mia
famiglia non era molto d’accordo—
Pensavo che l’amore mi avrebbe riparata da ogni
pericolo
Ha cominciato a picchiarmi da subito—appena arrivati
in Italia in uno sperduto paesino dell’Appennino bolognese
Ero sola - senza amici né vicini di casa
Sola tutto il giorno e quando lui tornava dal lavoro
mi picchiava
Mi picchiava per ogni cosa che dicevo-
che facevo
Il cibo che preparavo non era mai buono per lui
Volevo ritornare al mio paese … ma la mia
famiglia di origine non era disposta a riprendermi
E lui continuava a picchiarmi – senza alcun
timore di Allah
Non avevo con chi parlare, non conoscevo la lingua
italiana … ero sola tutto il giorno…
Lui ritornava dal lavoro e mi picchiava come fossi io,
la causa di tutti i mali
Dei giorni non bastavano le botte – c’era anche la
volontà di umiliarmi, di farmi morire –
Quando trascinandomi per i capelli mi costringeva a
baciargli i piedi o a lavarglieli
Come facevano suo padre e ancora prima di suo
padre- suo nonno… in Palestina.
Dopo le botte- ad accompagnare me sanguinante - al
pronto soccorso- era lui stesso
LUI- MEDICO VENUTO IN ITALIA PER LAUREARSI IN
MEDICINA E POTERE SERVIRE MEGLIO LA NOSTRA AMATA TERRA
Io ai medici non dicevo mai la verità –
inventavo che ero caduta dalle scale o che avevo
sbattuto contro un mobile-
Non ho mai sporto denuncia … lo coprivo perché lui era
il padre dei miei figli…
Poi siamo venuti a Bologna
Lui continuava a picchiarmi – a rifiutare la figlia
femmina – a fare lunghe assenze da casa – e quando ritornava anche
ubriaco riprendeva a picchiarmi - un giorno è venuto a letto con un
coltello.
Vivevo nel terrore
Un bel giorno è andato via da casa definitamene --- senza
spiegazione
Ha chiesto la separazione senza neppure
informarmi
Adesso siamo divorziati – è scomparso del tutto- non
pensa ai figli – non manda i soldi – stabiliti dal tribunale per gli
alimenti
Io sono sola con i miei figli-
ho difficoltà materiali ma ALMENO
NON VIVO Più NEL TERRORE
– Però è come se avessi un vuoto dentro
……
QUELL ’UOMO MI HA UCCISA LASCIANDOMI VIVA
Abbiamo scritto la mia storia così::
-
Per le continue botte senza motivo -
-
Quando spariva per lunghi periodi .
-
Quando tornava a casa ubriaco trattando male anche i bambini –
-
Quando mi impediva di ritornare in Tunisia per rivedere i miei
…
MI HA UCCISA LASCIANDOMI VIVA
Quando ha venduto la nostra casa in Tunisia senza dirmi nulla
Quando ha chiesto la separazione in Tunisia senza informarmi
Quando spariva lasciandomi per cercare altre donne
Quando non voleva darmi i soldi per la spesa
MI HA UCCISA LASCIANDOMI VIVA
Avendomi portata in Italia con la promessa di una vita migliore
MI HA UCCISA LASCIANDOMI VIVA
Quando al pronto soccorso dichiaravo
che ero scivolata dalle scale
che ero inciampata contro un mobile
che non avevo visto il tavolo
… MI HA UCCISA LASCIANDOMI VIVA
Quando è sparito lasciandomi senza soldi e con i bambini da curare
Sola
In un paese straniero
- Zorha
SIAMO ARRIVATI DA QUALCHE ANNO IN Italia .
io sedicenne – i miei tre fratelli adulti e mio padre
Mia madre è rimasta in Tunisia con i bambini
piccoli
Mio padre, ad un certo punto, ha cominciato ad avere
premure particolari per me … di notte mi raggiungeva nel mio letto
Mi ha costretta ad avere rapporti con lui …. Violando il mio corpo adolescente, anche con la
promessa che avrebbe chiamato un ragazzo dalla Tunisia e che adoperandoci
noi a fargli
avere il permesso di soggiorno – lui mi avrebbe sposata e tutto si sarebbe
messo a posto
Ero disperata
..i miei fratelli fingevano di non vedere-e di non sentire –
ne ho parlato con il mio ragazzo, siciliano, ma - forse per paura- mi
ha lasciata subito
Ero disperata e sempre più sola
Finalmente h o trovato la forza di parlarne con una assistente sociale che
mi ha accompagnata a sporgere la denuncia
Mi sentivo anche in colpa …. Allora ho cercato appoggio in mia madre
Le ho telefonato e le ho raccontato tutto- per tutta risposta lei mi
ha detto di
RITIRARE LA DENUNCIA –
CHIEDERE SCUSA A MIO PADRE
E CHE SE LUI FOSSE STATO ARRESTATO LEI E I BAMBINI –- SAREBBERO MORTI DI
FAME SENZA ALTRA FONTE DI SOSTENTAMENTO
I servizi sociali mi hanno allontanata da mio padre-
adesso vivo in una comunità dove qualcuno si occupa di me –
Studio e frequento una borsa lavoro
Nessuno abusa di me ma non sono serena –
Sento delle macerie dentro di me – come se fossi segnata per sempre –
IL FUTURO MI SPAVENTA
Riaffiorano vagamente- anche ricordi della mia infanzia … in
Tunisia
… storie di uomini che abusavano delle figlie e che arrestati
venivano condotti in prigioni particolari… in sotterranei – isolati dagli
altri detenuti perché si erano macchiati delle azioni più terribili: distruggere
la vita dei propri figli
- Ighes
Non avevo scelta : o fare morire di fame i miei tre figli o venire in
Italia
La vita in Eritrea è difficilissima : la guerra – la miseria
Io ero infermiera nell’esercito regolare --- a tutti gli effetti sono stata
una militare – a volte ho anche impugnato le armi
In Italia faccio la badante – E NEL GIORNO LIBERO per guadagnare un
altro poco di soldi vado a stirare in casa di una signora
Mando tutto il mio guadagno in Eritrea- riuscendo a sfamare la mia famiglia
– mio padre le mie sorelle e altri parenti
In pratica VIVO MURATA NELLE CASE ITALIANE
Lontana dai figli che stanno crescendo senza di me , deprivata da ogni
affettività
MIO MARITO MI CHIEDE SOLDI IN CONTINUAZIONE
Lui pensa che se mando 1000 € al mese- alla famiglia io ne guadagno
molti ma molti di più –
Io pensando di fare stare meglio i miei figli, mandavo in
Eritrea tutto quello che guadagnavo – PRIVANDO ME STESSA DI OGNI COSA
MIO MARITO ?
Non solo non si preoccupa della mia solitudine. e della mia
sofferenza
si permette di farmi scene di gelosia per telefono e di… chiedermi
sempre più soldi
….– mi sento una mucca da mungere
Adesso ho saputo che con i miei soldi si diverte
con altre donne.
Avrei dovuto immaginarlo
Sono avvilita
Del resto anche in ITALIA I MIEI PAESANI CERCANO LE
DONNE ERITREE SOLO PER I SOLDI CHE QUESTE GUADAGNANO
IO PENSO- SINCERAMENTE - CHE GLI UOMINI SIANO INAFFIDABILI IN TUTTE
LE PARTI DEL MONDO
- Fouzia
Non avevo ancora dodici anni quando le famiglie decisero che avrei dovuto
sposare un uomo che mi avrebbe fatto vivere una vita migliore a
Casablanca
Io giocavo ancora con le caprette , aiutavo la mia mamma
e le mie sorelle a raccogliere i frutti della terra , a fare il pane, a
tessere i tappeti …
Per me tutto era un gioco. coccolata dall’amore dei miei
Non sapevo cosa mi sarebbe successo sposandomi
Sentivo che se avessi lasciato la mia casa, la mia famiglia, i miei
animali sarei potuta morire
Avevo molta, ma molta paura
Si fecero le nozze ugualmente e mi condussero nella casa del mio “ sposo “
Piangevo-
ero atterrita
e in quella prima notte di notte mi consolai portandomi a letto
un grosso coltello da cucina con il quale minacciavo mio marito. Se si fosse
avvicinato a me e mi avesse toccata l’avrei accoltellato …
Così , tutte le notti, per una settimana- nello strazio della mia
angoscia ….
….. lui fu paziente, sorrideva - mi disse soltanto che se volevo
così, mi avrebbe ricondotta dalla mia famiglia
Sapevo quale vergogna sarebbe stata per me e per tutto il mio
villaggio – essere “ri-consegnata “ alla famiglia di origine
NON VOLEVO CHE LA MIA FAMGLIA SOFFRISSE PER ME
RIMASI CON IL MIO SPOSO – IO BIMBA DI 12 ANNI CHE VOLEVA ANCORA GIOCARE….
Ho cinque figlie FEMMINE un figlio maschio ed una
nipotina che sono tutta la mia vita
Sono felice che le mie figlie abbiano un destino
diverso dal mio
- Mariam
Evoco ricordi, sensazioni : la mia adolescenza e la mia giovinezza ,
la mia casa
con i suoi odori, il senso di sicurezza che mi
infondeva .
La mia nonna e la mia mamma. Bellissime.
La loro femminilità nella loro bellezza.
Senza artifizi. Spontanea.
La ricerca della luminosità, della morbidezza, l’ henne la pianta del
paradiso, come alimentare la bellezza delle donne in modo naturale e poi
il matrimonio i preparativi sul mio corpo … Il giorno più bello della mia vita.
Anche se mi sono sposata per volere dei miei genitori.
La mia giovinezza: nostalgia e tenerezza- mancanza di libertà e divieti.
Rimproveri regole rigide e poi morbidezza luminosità, pelle morbida ,
mani decorate con l’henna , amiche, amore, affetti e spensieratezza …
Sono una ragazza che vuole correre, divertirsi, ho la mente libera, non ho
pensieri.
Divieti si. Come vestirmi – come camminare- cosa non fare .
Cerco il ritmo per la mia vita.
Non so ancora come possa trovarlo.
Devo stare attenta a non lasciarmi schiacciare, a non fare indigestione di
sollecitazioni .
Rischio di vivere nel turbine
Devo trovare il ritmo
Voglio essere bella come la mia mamma
non ci riuscirò mai
lei è bellissima
elegantissima
raffinatissima
Sento che non potrò mai eguagliarla
Ma le mie figlie no – loro devono avere il potere sul loro corpo- Non
negarsi la bellezza
Se lo smalto colorato è un loro desiderio a loro compro smalti di dieci
colori diversi , uno per ogni unghia delle mani --I divieti che ho avuto
io non devono ricadere anche su di loro
Io sento che alcune parole ormai mi appartengono : libertà, amicizia, amore, felicità, possibilità di scegliere.
Le mie radici sono anche quelle delle mie figlie ma le loro si intrecciano
con la mia trasformazione.
Io sono tutto quello che ho vissuto e lo porgo loro perché siano più
consapevoli, più ricche,come persone e più felici di me --Anche a
loro appartengono : la morbidezza, la tenerezza - delle mamme, delle nonne
,delle amiche, - il piacere dell’hammam , l’hennè naturale , strumento della tradizione
o lo smalto per unghie ritrovato moderno,- i canti, i suoni, i
sapori che sono stati miei e
prima ancora di me, della mia mamma
e ancora prima di lei della mia nonna ….
Le
radici non si recidono – sono il nostro passato e senza passato non ci può
essere futuro -
Cerco il ritmo , il senso di appartenenza …posso non avere la mamma
vicina , la nonna o le sorelle e i fratelli .. Posso
ri-collocarmi, trovare un altro senso di appartenenza , altri scopi
nella vita
ma forte rimane sempre in me il bisogno di
“comunità includente “ di cui essere parte attiva
Il tempo passa … io cerco il ritmo.
- Karima
Il nostro cammino migratorio è un po’ difficile , come quello di
tutti gli immigrati, a cominciare dal fatto che in Italia la mia laurea
non viene riconosciuta e così tutti I MIEI STUDI SONO
AZZERATI ED IO NON RIESCO A TROVARE LAVORO
Però nonostante le difficoltà, penso di essere
fortunata ho una splendida famiglia - un marito che mi capisce e mi sostiene
anche in questa impresa dell’associazione e due bambini bellissimi,
invece prima in Marocco tante mie amiche le facevano sempre visitare perché non
si sposavano, e ci sentivamo in trappola.
Anni fa ho conosciuto delle donne italiane che sono diventate mie amiche e
assieme abbiamo deciso di costituire una associazione di donne native e
migranti – appunto
ANNASSÎM che in arabo significa ARIA FRESCA DEL
MATTINO
---Questo nome l’abbiamo pensato perché vogliamo una ventata di
aria fresca e pulita
per ri-cominciare la mia nuova vita in Italia
e per la vita di tutte le donne della nostra associazione che si impegnano contro l’ignoranza e
l’esclusione sociale delle donne migranti .. Questo in Marocco sarebbe
molto difficile. Nel tempo libero ho scritto delle poesie, le mie amiche
italiane mi hanno aiutato a pubblicarle e leggerle, ero tutta contenta e le ho
mandate ai miei fratelli in Marocco, con la mia foto che hanno pubblicato sul
giornale mentre leggevo. Mio fratello mi ha chiamato e mi ha detto: “Tu non sei
mica andata in Italia per leggere le poesie”….
Il mio corpo non è stato violato, ma la mia anima non riesce mai a volare.
- Afef
Mio marito mi telefona quando torna dal lavoro, fa i turni, a volte alle 10
di mattina finisce, a volte alle 5 di pomeriggio. Se non ci sono, in casa, mi
telefona. Stiamo in 7 nel bilocale del Comune, ho 5 figli, e lui mi telefona e
mi dice di tornare. Se è mattina ho solo i due figli piccoli, due maschi, se no
il pomeriggio li ho tutti quanti – ma magari qualcuno se lo prende una vicina,
perché sono tutti alle elementari e me li portano a casa per aiutarmi. Quando
lui chiama, so cosa devo fare. Lui mi vuole a casa perché ha le sue esigenze di
uomo e ha voglia e allora mettiamo i bambini davanti alla tv e andiamo
nell’altra stanza o anche nel bagno e lui mi fa quello che deve fare e poi io
sono libera e vado avanti con la giornata. In Italia sto bene perché c’è sempre
da mangiare. Non so leggere e scrivere ma parlo abbastanza bene perché non vado
solo ai negozi islamici ma anche un po’ a delle scuole gratis di italiano dove
si può stare anche coi bambini, come Annassim. Le italiane sono strane, mi
fanno un po’ ridere e un po’ paura, a mio marito non piacciono e non vuole
proprio sempre che le incontri, a volte non vuole e sto a casa. Mio
marito non vuole che prenda la pillola.
9. Sanha
I miei genitori sono marocchini ma io sono italiana ,
sono nata ad Imola e i miei amici sono italiani e marocchini : sono
gli amici della scuola materna .
Io ho cinque anni , mi piacciono molto i
miei compagni e le mie compagne , con loro mi diverto scherzo, gioco e le
maestre ci fanno fare dei giochi bellissimi.
Con Luca un bambino con cui gioco sempre
abbiamo imparato a scrivere le prime letterine dell'alfabeto italiano .
lui mi aveva detto che stavo diventando brava a
scrivere e a parlare l'italiano, così gli ho dato un bacino sulla guancia e gli
ho regalato un bel disegno su un bigliettino di carta colorata e poi gli
ho scritto anche TI AMO
- io quella frase la sento sempre in televisione
quando ci sono dei films in italiano, oppure scenette anche nella tv
marocchina come M2
ero molto contenta , soprattutto dei miei
progressi e del riconoscimento avuto dal mio compagno Luca
così tornata a casa l'ho raccontato alla mamma .
Lei si è molto arrabbiata , mi dato uno schiaffo e per
due giorni non mi ha mandato a scuola dove mi diverto tanto. per punizione ..
Adesso, sono meno contenta, ma so che non
devo tradire la nostra religione : io sono musulmana e un uomo e una donna non
si possono toccare se non sono sposati. Lo dianche il Korano
10. Khaled
Mio figlio HA NOVE ANNI, è nato in Italia, io e mio
marito siamo tunisini.
Frequenta la quarta elementare , un giorno la maestra
chiama la madre - perchè il piccola aveva picchiato una compagna ... italiana
niente razzismo, niente antipatie personali, niente
dispetti, niente giochi fra bambini, soltanto la sua compagna di banco Sabrina
aveva voluto ringraziarlo con un bacetto per una caramella che lui le aveva
offerto.
L'aggressività eccessiva di Kaled non è una
colpa , il piccolo ha difeso con orgoglio la sua identità di musulmano.
La madre era orgogliosa di lui - si era
comportato da vero musulmano , non avendo accettato il contatto fisico
con la sua compagna di nove anni .
Tale pratica è concessa ad uomini e donne soltanto
dopo il matrimonio - lei ritiene che ispirandosi e seguendo i
principi del Corano la vita felice sia perfetta
Io sono italiana. Manca un racconto, una conclusione che avrebbe dovuto fare una donna
ceca, laureata in psicologia, venuta in Italia PER AVERE SPOSATO UN
ITALIANO DI CUI ERA INNAMORATA. E’ dovuta tornare d’urgenza al suo
paese per motivi familiari … Noi non ci sentiamo di scrivere la sua
storia, che lei avrebbe voluto raccontare con il suo italiano incerto ma anche
con la forte emozione di chi ha subito violenza e sopraffazione. Ve ne abbiamo raccontate altre - e altre ancora ve ne racconteremo.....
Grazie della lettura - e arrivederci!
(Progetto editoriale a cura di Lella Di Marco e Alessandra Lazzari)
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